Avete presente quando la connessione diventa debole, l’immagine dell’interlocutore si blocca ad un quadro che avrebbe fatto sognare Picasso e si sente soltanto “non…pens…qu…mi…al…dì…”? Durante quei momenti mi venivano spesso in mente, opere del teatro dell’assurdo in cui la comunicazione umana fallisce ed escono fuori frasi senza senso, parole scomposte, dialoghi che suscitano sorriso nonostante la condizione tragica che vivono i personaggi.
Comunità e partecipazione. Ma come si fa a distanza? Come si fa relazione attraverso il teatro senza la presenza dei corpi? Come si fa da una stanza? Non dalla stessa, ognuno dalla propria… Provo a vedere questo periodo come se fosse un’opera teatrale: il drammaturgo avrebbe messo delle indicazioni sulla descrizione dello spazio all’inizio di ogni atto. Solo che in questo caso, lo spazio è sempre lo stesso: dall’inizio fino alla fine, i luoghi cambiano ma lo spazio rimane sempre lo stesso: casa mia. Con l’aggiornamento della promozione del mio telefonino, questi mesi casa mia ha navigato con ben 50 giga a 4G e con un solo click, si è trasformata in ufficio, in laboratorio teatrale, in sala di formazione, persino in bar per le apericene con colleghi ed amici. Giusto per illudermi con un minimo di spostamento di spazio, ho stabilito una piattaforma diversa per ogni situazione lavorativa.
Click. Skype. Avvia una conversazione. Mi trovo in sala di formazione con i volontari europei i quali mettono seriamente in atto, quello che è il nome del loro progetto: Solidarity in action. Con l’inizio dell’emergenza sanitaria, sette su otto, decidono di rimanere in Italia. “Katerina, sai qual è il problema di questa quarantena?”, mi dice un giorno Zsofia, volontaria europea ungherese. “Che ogni mattina mi sveglio, metto obiettivi, mi sento un po’ come Newton che durante la sua quarantena scoprì la legge della gravità. E senza avere obiettivi così alti, a fine giornata, mi ritrovo sul divano, a scorrere Instagram, senza aver fatto mezza cosa del lungo elenco della mia “to do list”.” Ammettiamocelo: tutti ci siamo sentiti come Zsofia all’inizio della quarantena prima che ci assorbissero le nuove abitudini – così velocemente fra l’altro. Questi mesi, da casa loro in via Montanaro, i volontari europei fanno box con gli utenti di Artemista, si inventano giochi per quelli di Casa di Zenzero, laboratori di cucina, di lettura, di disegno, di movimento, di teatro, forniscono aiuto scolastico ai figli dei beneficiari di Mr.Gr.ab. Perdono la motivazione, “ma proprio quest’anno ho scelto di fare l’esperienza all’estero?”, per ritrovarla nella sfida di entrare nelle case degli utenti attraverso le videochiamate. Irisz decide di farsi un regalo: gli incontri di Arteterapia con gli adolescenti di con.tatto. Solo che mentre lei cammina nella sua stanza, immaginando di trovarsi in natura con i suoni dell’acqua e degli uccellini attorno, dal salone si sentono le grida del resto del gruppo che sono in videochiamata con gli utenti del CADD.
Click. Teams. Marco Fiorito wants you to join a call. Mi trasferisco in ufficio, in equipe. Dietro i loro schermi, i colleghi alternano ruoli con la velocità dei più grandi trasformisti: da colleghi diventano genitori, da genitori insegnanti, da insegnanti figli dei loro genitori, da figli dei loro genitori diventano fidanzati, da fidanzati tornano ad essere colleghi. So in quale punto di casa di Marco, prende Internet. Che nel cortile di Marcello c’è una carrozzeria “fai da te” mentre in quello di Silvia c’è un ciliegio. Gli orari in cui dorme (per poco!) il figlio di Anna Carla, sono gli orari in cui facciamo la nostra equipe. So che Lidia e Nicolò escono sempre al balcone per fumare, invece Marcello, se non ci sono i bimbi, fuma in casa. Leave call.
Click. Please wait, the meeting host will let you in soon. Mentre siamo in sala di attesa su zoom, vi faccio una premessa: nei primi di marzo, sarebbe dovuto partire un percorso di Teatro Sociale con volontari 80enni che svolgono il loro servizio con adulti in difficoltà. Già erano diffidenti verso il teatro come strumento di relazione, ci mancava soltanto che tutto questo si trasformasse online! Ebbene, si! Luogo di incontro: zoom. La prima volta che ho sentito nominare questa piattaforma a metà marzo, anziché zoom, ho sentito zoo. Infatti, sembriamo degli animali che, ognuno dalla sua gabbietta, cerca disperatamente di trasmettere esperienze, pensieri ed emozioni. E mi chiedo: cosa muove un 80enne ad imparare ad utilizzare la piattaforma zoom? Ecco che il distanziamento sociale si annulla con la tenacia di Adriana che cerca di trovare dove cavolo è la chat di zoom.
Paolo non è l’unico che sparisce ogni tanto. Dove siete? Vi aspetto su Teams. Ma non avevamo detto Skype? Proporrei WhatsApp, tanto, ormai si può fare in otto. Però se dobbiamo utilizzare le stanze private, meglio su Zoom. Webex? Ragazzi, io ho scoperto Jitzi! I miei dispositivi chiedono pietà dai programmi e dalle app scaricate questi mesi.
Provo a prendere le distanze da tutto questo e immagino, dopo 100-200 anni che il nostro presente, sarà passato: tutti questi racconti che abbiamo condiviso, si perderanno sotto “l’anno (gli anni?) del Coronavirus”! Personalmente, soltanto il nome del virus, di fronte alle epidemie tremende del passato (la peste, il colera…), mi fa sorridere un po’. Comunità e partecipazione. Non penso che le relazioni umane, il contatto fisico siano minacciati dalla paura generata questo periodo e dall’imposto distanziamento sociale. Da poco abbiamo fatto un evento all’aperto con la cittadinanza di Collegno e ho notato che la gente era particolarmente curiosa ed attivata. Mentre tracciavano linee su una mappa interattiva e segnavano i loro pensieri sui post-it, era evidente la quantità di tempo che hanno avuto in questo periodo per riflettere ed era altrettanto evidente la loro voglia di condividere questi pensieri e di confrontarsi. Parole come “comunità”, “legami”, “connessione”, “solitudine”, “confine” non sembrano più parole tanto per dire, ma sembrano parole dense di pensiero e di desiderio.
Nonostante la rabbia, la fatica, la delusione, la paura, chiudo questo pensiero citando Seferis, un poeta greco che nel suo discorso per la premiazione Nobel nel ’63, scrisse: “Quando Edipo incontrò la Sfinge, la sua risposta al suo enigma era: “l’uomo”. E quella semplice parola ha distrutto il mostro. Abbiamo molti mostri da distruggere. Pensiamoci a quella risposta di Edipo.
Katerina Nastopoulou
“Sguardi oltre lo schermo” è una raccolta di punti di vista di operatori e operatrici di Stranaidea sul lavoro sociale ai tempi del Covid-19. Perchè andrà tutto bene, se andrà bene per tutti