Lavoro come operatrice da molti anni presso la CON Carrera.
Cosa è successo in questo tempo? Cosa ho fatto, pensato, comunicato e scelto – quando è stato possibile farlo – come operatrice sociale?
Inizierò dalla fine, perché la conservo con più nitidezza.
Le norme del convivere erano già ampiamente riviste ed assimilate a quel tempo.
Tenere la mascherina chirurgica e le distanze prescritte.
Usare stoviglie monouso. Creare porzioni singole di cibo.
Disinfettare le superfici più e più volte idem per le mani, che non ci diamo più.
Non scambiarsi oggetti. Stare uno per volta di fronte al forno a microonde, alla macchinetta del caffè, alla lavatrice. “Non entrare in ufficio è troppo piccolo, esco io”.
Sapevamo bene cosa stava accadendo “fuori” e in quel momento sempre da “fuori” ci veniva detto cosa stava succedendo “dentro” la CON Carrera.
Durante quel tardo pomeriggio in cui ho riportato la comunicazione ai presenti nella CON che erano giunti gli esiti dei tamponi (ben oltre le 48 ore sperate e comunicate) abbiamo chiuso qualcosa che durava da due mesi ed aperto qualcos’altro che non aveva ancora un nome, un modo, uno spazio.
Io e Maria Chiara, collega del turno, abbiamo svegliato dalle camere chi sonnecchiava, bussato ai bagni ed alle docce, interrotto letture, telefonate e merende.
Di lì a poco ci saremmo tutti incontrati in giardino, sotto agli alberi.
Il tempo sembrava minimo: i pochissimi ospiti risultati negativi, nel numero di 6, sarebbero stati accolti altrove quella sera stessa. Andava concertato un gran movimento, erano quasi le 19 ma nessuno chiese della cena.
L’intorpidimento generale di tutto quel lungo periodo si è velocemente dissolto: sacche, borse e valige si son riempite come fossero sull’attenti da un pò.
Qualcosa è stato buttato forse perché troppo usato o ritenuto ormai inutile.
Un cellulare è sparito nel via vai degli oggetti.
Abbiamo distribuito interi pacchi di fazzoletti a ciascuno ed ora la cosa mi fa sorridere: come dovessero, solo da quel momento, vedersi colti da inarrestabili sintomi influenzali.
Dopo mesi di inattività, di azioni e gesti limitati vedevo tratteggiarsi scosse che avrebbero sparpagliato tutto e tutti.
Le ricordo le persone attorno a me: 31 uomini e Max il cane; non si era creato un cerchio ma più un piccolo e ordinato gruppo con il sole alle spalle. Ho cercato di comunicare in quello spazio aperto con voce ferma e paziente ciò che sarebbe iniziato ad accadere: eravamo arrivati con la nostra navigazione ad uno spartiacque.
Nessuna nostalgia, si trattava finalmente di un segno di considerazione e tutela.
Sentivo che, più del solito, la mascherina non mi permetteva di modulare il tono ed il volume di voce.
Il filtro mi rubava aria ed io avrei voluto parlare a volto scoperto per farmi sentire distintamente.
Ho spiegato un paio di volte le stesse informazioni, chiesto a chi volesse di fare domande utili per tutti promettendo un tempo individuale per ognuno subito dopo, domandato a chi conosceva lingue diverse dalla mia d’aiutarmi con chi aveva compreso ancora poco.
Positivi per di qua e negativi per di là.
Non da subito però: per i positivi sono serviti altri giorni d’attesa prima di avere una nuova collocazione.
Pochi erano sollevati.
Molti altri arrabbiati ed increduli: per quale motivo l’essere “positivo” significava virus e contagio? Non avevo contemplato queste incomprensioni linguistiche.
Le CON non hanno mai chiuso, anzi hanno aumentato l’orario di servizio a 24 ore ad un certo punto del percorso.
Non è mai valsa per noi la procedura dello smart working, del lavoro da casa, nessuna tecnologia “salvagente” sarebbe stata necessaria per rapportarci con gli ospiti.
Durante tutto il tempo d’emergenza son rimasta immersa in uno spazio che mi era noto eppure delle volte, per alcuni attimi, non sapevo come fossi finita lì in quelle condizioni.
Niente, o quasi, andava più bene rispetto al giorno prima.
Bisognava inventare e immaginare pratiche, gesti e nuove ragioni alla base del nostro essere ed operare come operatori nel sociale.
Mi piace riportare quello che una volta Elena, altra collega, disse: dobbiamo “metterci pensiero”.
Avevamo quella occasione.
Io ho provato a non essere agita da automatismi, a non replicarmi. Non so se ci son sempre riuscita.
La ricerca di modi, di equilibri per vivere questa lunghissima interruzione dell’ordinario non si è fermata ancora. Cerchiamo di abitare il dialogo in qualsiasi direzione, anche quando abbiamo sentito mancare l’interlocutore o le idee.
Ci proviamo.
Serena Cossotto
“Sguardi oltre lo schermo” è una raccolta di punti di vista di operatori e operatrici di Stranaidea sul lavoro sociale ai tempi del Covid-19. Perchè andrà tutto bene, se andrà bene per tutti