– Io non lo so perché ma ho tanta paura di questo virus.
– H., avere paura è normale, la paura ci permette di riconoscere i pericoli e di affrontarli, ma non devi farti paralizzare dalla paura. Questa malattia è rischiosa, però tu sei giovane e stai prendendo tutte le precauzioni necessarie per evitare il contagio.
– Io ho paura anche per mia mamma. Perché domani lei va a lavorare.
– Domani mattina facciamo una videochiamata tutti insieme e ne parliamo anche con papà e con tua sorella. Lei come sta?
– Lei sta bene, è una bambina, lei pensa che tutto andrà bene. Ma tu adesso puoi uscire?
– Adesso sì. Ho passato due settimane chiuso in casa da quando mi hanno detto che forse ho preso il virus. Ma sto bene, non ho niente.
– E tu hai avuto paura?
– Noooo, figurati. Me la sono quasi fatta addosso!
– Ahahahaah!
– A domani. E dormi tranquilla.
– Ok, a domani. Grazie.
Il giorno dopo, la videochiamata sfonda i limiti di ogni ragionevole durata. I telefoni, a chilometri di distanza uno dall’altro, gracchiano, si surriscaldano e perdono la linea ogni mezz’ora. Guardiamo insieme una delle prime mappe del contagio. Per il momento ci sono molti casi in Cina, in Corea e qualcuno in Italia. Neanche uno in Libia. H., vinta l’ansia della sera prima, ride: “Certo, perche in Libia quando muori sei morto e basta, mica ti dicono perché!“. Decidiamo che la mamma dal giorno dopo avrebbe smesso di andare a lavoro ma concludiamo che questo virus non ci fermerà, che è solo una brutta influenza e starà comunque alla larga da noi grazie alle mascherine, ai guanti e alle eterne giornate passate chiusi in casa.
Quando chiudo la comunicazione video, dopo i consueti trenta secondi di imbarazzo finale in cui tutti fanno “ciao ciao” con la mano ma nessuno osa premere il tasto rosso, provo sollievo nel pensare che questa volta, almeno questa volta, la famiglia di H. non soffrirà. Lo ha fatto abbastanza tra Marocco e Libia. È fuggita da una persecuzione, è sopravvissuta a una guerra, ha attraversato il Mediterraneo e non ha avuto pace nemmeno in Italia, in un centro di accoglienza straordinaria troppo affollato e gestito con la sola logica del profitto. Adesso che sono finalmente al sicuro nel nostro Progetto „MrGrab“ che hanno una casa tutta per loro, che lavorano, studiano e sorridono, non sarà un parassita cellulare microscopico a metterli in difficoltà. Penso che questo padre avrà ancora una volta la forza di proteggere sua moglie e le sue figlie.
H. non telefona quasi mai. Scrive solo su Whatsapp. Spesso di sera, prima di andare a dormire. Adesso però il mio telefono sta squillando e sullo schermo c’è l’immagine del profilo di H., sorridente accanto a sua sorella. E sono le 7:30 di mattina. Porto il telefono all’orecchio pensando che sono il solito catastrofista che tra il bicchiere mezzo pieno e quello mezzo vuoto non vede neanche il bicchiere. “Ciao Fabio mia mamma ha mal di testa e la febbre alta“. “Da quando? Alta quanto? Ha la tosse?“. H. non risponde. “H. da quando ha la febbre?“. “Da ieri, ma non ti abbiamo chiamato perché era domenica e non volevamo disturbare“. “Dovevate chiamarmi invece. Passami mamma”. Mentre H. raggiunge sua madre penso che potrebbe trattarsi di una qualsiasi influenza, un raffreddore, un batterio intestinale o uno di quei colpi d’aria che mi diagnosticava mia nonna. Cerco di allontanare l’ansia e vedere il maledetto bicchiere, pieno o vuoto che sia, ma poi sento quella tosse. “Persistente e stizzosa” come la descrivono i telegiornali. “La mamma non riesce tanto a parlare” dice H.
Chiudo la chiamata e ne effettuo dieci di fila: la responsabile del Progetto, il numero d’emergenza del Ministero della Salute, il medico di base, l’asl, il 118, un paio di colleghi, un amico medico e chissà chi altro. Alla fine un’ambulanza raggiunge la famiglia, il medico al telefono dice che “potrebbe essere Covid“. Seguono giorni di attesa e di facce sullo schermo oggi livide, domani più serene, il giorno dopo di nuovo preoccupate. Giorni passati a contare i colpi di tosse durante le videochiamate, a chiamare amici medici e infermieri, a scambiare fotografie di termometri, a cercare informazioni che nessuno sa darci. Ormai questa malattia è ovunque, tutti ne parlano ma nessuno sembra capirci nulla. Tutti hanno un opinione ma le opinioni, si sa, sono come il (omissis), chiunque ne ha uno. Il tampone diventa una chimera irraggiungibile, un essere mitologico che nessuno sa come trovare. Per ottenerlo siamo costretti a dare fondo a ogni risorsa, a telefonare e mandare mail per giorni. Alla fine arriva anche il tampone, e nel lunedì di Pasquetta più surreale della storia arriva anche l’esito: positivo. Arrivano altri giorni di videochiamate ansiose, di terapie che sembrano improvvisate, di visite mediche non effettuate. Una di queste chiamate arriva alle due di notte. È H.: “Aiuto, per favore, mamma non riesce a respirare“. Altre telefonate, nuova ambulanza: “La signora respira male ma l’ossigenazione è buona. Forse è solo ansia“. Ormai con l’ansia ci conviviamo, la respiriamo e ce la mangiamo a colazione condita con la frustrazione e il senso di imponenza. Eppure il medico del 118 questa volta è più loquace, chiede chiarimenti sulla terapia prescritta, consiglia di contattare il medico di base. Qualcosa non va. L‘ansia mi porta a improvvisarmi immunologo di fama internazionale: “allude alla clorochina?“. Il medico risponde che non vuole e non può sostituirsi al medico di base però “per fortuna lo ha detto Lei“. Chiamo il medico di base e mentre lo aggiorno sulla notte trascorsa sento ancora quella frase: “forse la signora ha un po’ di ansia“. Gli rispondo che di sicuro ha un po’ di ansia, che anche io ho l’ansia, che tutto il Progetto ha l‘ansia e che anche il mio cane ormai ha l’ansia. Gli chiedo della clorochina e mi risponde che per prescriverla bisognerebbe fare un elettrocardiogramma, “ma chi glie lo fa?“. E comunque “se non c’è febbre non c’è polmonite, quindi bisogna stare tranquilli e non farsi prendere dall’ansia“.
Altri giorni di videochiamate, di isolamento, di mascherine e di buste della spesa lasciate davanti alla porta. E quella tosse è ancora lì. L’ultima chiamata è con l’ospedale, uso parole ed espressioni di cui mi vergognerò a lungo ma siamo tutti estenuati e arrabbiati. Alla fine arriva di nuovo l’ambulanza e questa volta la mamma di H. viene ricoverata. Quattro giorni di visite e di riscontri puntuali da parte di medici e infermieri straordinari per competenza e umanità. Elettrocardiogramma, clorochina due volte giorno per sette giorni perché “comunque, una polmonitina c’è, ma se tutto va bene fra tre giorni la rimandiamo a casa“. Il terzo giorno la paziente sviene e decidono di tenerla ancora un po’: “Forse è solo ansia“, dicono.
Il giorno dopo si torna a casa, tra lacrime di liberazione. La tosse è sparita, H. e sua mamma inviano foto che le ritraggono ai fornelli. Nuove videochiamate un po’ più serene durante le quali ci sembra di sentire il profumo del coriandolo, della menta e della felicità.
Altre chiamate per ottenere i tamponi di controllo per tutta la famiglia. L’ultima videochiamata per comunicarne l’esito: tutti negativi. Da domani, dopo due mesi, potranno uscire di casa. È una videochiamata fatta principalmente di silenzi, e condividiamo tutti un senso di stordimento e uno strano mal di testa: forse, pensiamo, è solo l’ansia che si sta dissolvendo, spazzata via da sorrisi che passano attraverso le mascherine e i cristalli liquidi degli schermi dei telefoni.
“Te l’avevo detto, H., che sarebbe andato tutto bene“.
Fabio Codias
“Sguardi oltre lo schermo” è una raccolta di punti di vista di operatori e operatrici di Stranaidea sul lavoro sociale ai tempi del Covid-19. Perchè andrà tutto bene, se andrà bene per tutti