Per anni mi sono chiesto come mai, comunque, ogni anno, io attenda con ansia la giornata a Mirabilandia.
Forse, adesso mi è chiaro, bastava guardare in faccia la gente.
I ragazzi salgono su qualsiasi tipo di giostra. Tutte. Dai cavallucci che girano in tondo al più veloce degli otto volanti. Sopra una giostra, di quelle dove i tuoi arti inferiori prendono spesso il posto di quelli superiori, il cardiofrequenzimetro che porto al polso è partito in un applauso spontaneo: “non so cosa diavolo tu stia combinando, ma bravo”.
A testa in giù, in caduta libera da una torre, ai 200 all’ora, in picchiata su un gommone, sono rimasto affascinato dai visi della gente che ci guardava mentre aspettava il proprio turno. Un tipo di espressione mi ha colpito in particolare. Alcuni sorridevano, un sorriso bello, spontaneo, naturale, e mentre sorridevano, avevano gli occhi lucidi. Non di pianto. Come se avessero compreso qualcosa, all’improvviso. E forse, in quel momento, l’ho capita anche io.
Le persone con disabilità si divertono. Come tutti. Il pensiero comune vuole che dove ci sia una disabilità ci sia sempre e costantemente una sofferenza. Niente di più sbagliato.
Disabilità non è sinonimo di fragilità. Vi assicuro che in un parco di divertimenti ci sono apparecchiature capaci di far gridare “aiuto” a chiunque. Ho visto persone “fragili” salirci su e accomodarsi come se fossero in fila dal parrucchiere.
E poi la cosa più importante, quella che ti fa brillare gli occhi di quella luce strana. Siamo noi i principali responsabili della nostra felicità. Non importa quanto la vita ti abbia messo alla prova, non importa quanto lo farà ancora, quanto siamo stanchi, provati, stufi. A un certo punto devi prendere il coraggio a due mani e salire su quella dannata giostra. E poi, ridere.
Giorgio Codias