Ci siamo tutti? Io non vi sento. Dice che non riesce a collegarsi. Forse manca ancora qualcuno. Ma voi sentite me? Sta facendo l’aggiornamento, ma arriva. Eppure sono certa manchi ancora qualcuno. Provo dal computer, forse è il microfono. Ecco, l’aggiornamento proprio oggi. Arrivati, finalmente, eccoci tutti!
È così che iniziano le nostre attività.
Il traffico, il parcheggio che non si trova, il civico non segnato o il ritardo dettato dalla paura di qualcosa di nuovo che inizia, oggi sono invece connessioni deboli, suoni con interferenze, voci di sottofondo che distraggono, schermi che ci obbligano a fare i conti non unicamente con proiezioni, ma anche con il rispecchiamento: perché in quello schermo vediamo anche noi stessi.
La piattaforma è composta da piccole caselle in cui ci presentiamo con i nostri sfondi, dove possiamo chiamarci per nome senza dirceli, dove possiamo nasconderci, ma esserci, dove il limite è sancito dallo spazio che occupiamo nello schermo, oltre il quale, se ben attenti, possiamo davvero iniziare a guardarci.
Fare gruppo non è uno scherzo.
Mai come oggi il termine “gruppo” è tanto anacronistico e in contrasto con le caratteristiche del tempo. Un tempo talvolta accelerato, talvolta dilatato dove è difficile progettare, ma soprattutto, progettare con l’Altro.
E come lo passiamo ai giovani di cui ci occupiamo, a cui con fatica proviamo ad avvicinarci con ben in vista le mani disarmate, che ci stiamo occupando di loro proprio standogli lontano?
Giovani, che spesso vivono la frammentazione di un tempo in cui definirsi, a cui diciamo che l’Altro non fa paura, che affianchiamo nello stabilire giuste distanze, cui mostriamo l’importanza della presenza, con la presenza. Come può suonare diverso il nostro “andrà tutto bene”, se lo hanno già detto tutti?
Non lo diciamo. Noi, facciamo gruppo.
In tre mesi abbiamo scritto di emozioni, ricordi e punti di vista, preparato piatti a cinque stelle, disegnato scenari mai conosciuti, danzato, giocato, ascoltato storie, respirato all’unisono, combattuto. Ci siamo fatti belli, abbiamo discusso di una trama con spirito critico e commentato il mondo inesplorato del Museo Egizio.
Lo abbiamo fatto dai nostri balconi, in camera nostra, in cucina con mamma e papà, ispirati dal nostro gatto, impauriti dal non sentire davvero uno spazio personale.
Qualche volta non ci siamo riusciti.
Lo abbiamo fatto ascoltando la città silenziosa, il rumore assordante di un luogo che è sempre stato stretto, disorientati dallo scenario così diverso tra il dentro e il fuori. Spaesati, arrabbiati, affaticati, impauriti, ma provando a superare i confini oltre lo schermo e insieme.
Nel tentativo di uscire dalla solitudine che “il metro di distanza” ha alimentato; con l‘obiettivo di proteggere il valore dei legami e rispondendo alla difficile sfida di “fare gruppo” in un momento in cui il distanziamento sociale ha intaccato il nostro modo di intenderci e guardaci, noi ci siamo fermati.
Abbiamo atteso.
E poi, cercato un sistema per restare in contatto.
Così, abbiamo scoperto, noi che “ci prendiamo cura”, che impariamo da chi ci parla dei suoi “cento cuori da salvare”, da chi con una lettera, sa mostrarci “Distese Di Dune Deserte”, o che i biscotti vanno tolti in tempo dal forno!
Chi sei? Sempre io.
Dove sei? Qui.
Quale schermo? Guarda dove vedi qualcosa.
Per oggi abbiamo finito.
Il prossimo incontro tra una settimana.
Con la fotografia cattureremo il mondo con il nostro sguardo compiendo delle scelte, ma se ci servirà più tempo, possiamo sempre dire “che la connessione era un po’ lenta”.
Teresa Legato
“Sguardi oltre lo schermo” è una raccolta di punti di vista di operatori e operatrici di Stranaidea sul lavoro sociale ai tempi del Covid-19. Perchè andrà tutto bene, se andrà bene per tutti